“Cosa fare a Denver quando sei morto” (Things to Do in Denver When You’re Dead) di Gary Fleder

Data di prima pubblicazione: 16 marzo 2010

707-Cosa fare a Denver quando sei morto (G….L’angelico Andy e il tarantinesco Gary

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L’angelico Andy, e il tarantinesco Gary

 

 

 

 

 

Nella Denver degli anni Novanta, Jimmy Tosnia detto l’Angelo (Andy Garcia) manda avanti ormai con poca fortuna una sorta di impresa funebre, specializzata nel registrare su vhs messaggi-testamento da parte dei moribondi.

Come tutti gli ex-balordi che tentano di combinare qualcosa di buono lasciandosi alle spalle un brutto passato ma si trovano dentro un film, l’Angelo però deve tornare a fare i conti con il Lato Oscuro, quando una fatale carenza di liquidità lo fa cascare nelle grinfie di uno spietato gangster (fumettistica irresistibile caratterizzazione di Christopher Walken) che ne ha comprato i debiti: l’azione riparatrice prevede l’utilizzo di un piccolo manipolo di sbandati, tra i quali spiccano personalità pittoresche come lo smargiasso Critical Bill (Treat Williams, fenomenale), lo schizzato Mr. Shhh (Steve Buscemi), il compassato Franchise (William Forsythe).

Quando le cose si metteranno male per l’Angelo, egli rimpiangerà di aver perso la testa per una donna sfuggente (Gabrielle Anwar, lo si può capire) quasi quanto essere l’oggetto amato dall’ormonale Lucinda (Fairuza Balk).

Perché, vedete, ci sono un sacco di cose da fare nella Città Alta Un Miglio, se sai che devi morire tra un attimo: salvarsi la pelle non è nemmeno in agenda.

 

Nel 1997, una sera d’estate, mi trovai in un cinema a vedere questo strano film uscito due anni prima in America, di cui mi aveva colpito il titolo chilometrico, e la compresenza sulla locandina di tanti appetibili nomi.

Di solito una distribuzione dilazionata e tardiva è la conseguenza di un lavoro produttivo contrastato da beghe legali, e la premessa di un film che oscilli tra i valori assoluti di ‘bruttino’ e ‘boiata’: invece, con mia gioiosa sorpresa, quella che voleva essere solo una fuga nella frescura condizionata di una sala cinematografica seppe diventare la visione del miglior epigono tarantinesco di quel decennio.

Gary Fleder, regista allora esordiente sul grande schermo, avrebbe avuto poi una carriera cinematografica segnata più dal prestigio che dal successo, a causa della mediocre riuscita di ben due film ad alto budget su tre (“Il collezionista” nel 1997 e “Don’t Say a Word” nel 2001) di cui l’unico davvero all’altezza fu l’ultimo, “La giuria” (2003).

Tanta tv prima e dopo questi titoli ne hanno acuito la specializzazione ma forse annacquato l’ispirazione, se è vero che il suo quinto lungometraggio, il dramma sportivo “The Express” (2008) avrebbe raggiunto il mercato europeo solo nella versione home-video.

Quale che ne sia stato un futuro che allora ancora non potevo conoscere, Gary Fleder imbroccò invece quasi alla grande la sua opera prima, dirigendo con orchestrale armonia una banda di facce da cinema come raramente capita di trovare tutte assieme in un unico film, e questo bastò a farmene avere un ottimo ricordo, che tuttora conservo.

 

Di Andy Garcia, in particolare, la mia memoria ha sempre registrato il fiammeggiante “Black Rain-Pioggia sporca” (Ridley Scott, 1989) come l’opera meglio rappresentativa della sua persona scenica, maschile ma aggraziata, circonfusa da un magnetismo ironico e sensuale, latineggiante nell’aspetto ma dura nell’anima.

Il protagonista nei cui panni si muove e agisce sembra il contenitore ideale per dare senso e funzionamento psico-dinamico alle sue migliori risorse morfologiche e attoriali: l’allora trentanovenne nativo dell’Avana (nome completo Andrés Arturo García Menéndez, fonte: www.imdb.com) ‘centrò’ il suo personaggio al mille per cento, controbilanciando con la sua consapevole malinconia e intelligente comprensione del Quadro Complessivo del Mondo il percorso altrimenti troppo fracassone e pulpeggiante tracciato dalla stolida verbosa cialtroneria dei suoi compari.

Peraltro, quando il cattivo ha la maschera di Christopher Walken, c’è sempre da mettersi sull’attenti: qui in versione tetraplegica, il già co-protagonista ne “Il cacciatore” di Michael Cimino ora icona di tanto cinema magistralmente parlato (rivedetelo in “Pulp Fiction” di Tarantino o “Una vita al massimo” di Tony Scott), consegna un’altra performance di memorabile prepotente perfidia, che trapassa i granuli cerulei del suo sguardo luciferino per raggiungere quello del pubblico adorante e assaporatore di alcune battute memorabili, seppur (o in quanto) pepate dal realistico turpiloquio che ci si aspetterebbe  da un farabutto a ventiquattro carati (Jimmy: «Avevi dato la tua parola!» – Lui: «Sono un criminale, la mia parola non significa un beato cazzo!!») (Lui: «Guardati. Ce l’hai la fidanzata?» – Jimmy: «No» – Lui: «È perché te ne vai in giro con quegli infetti. I-n-f-e-t-t-i. Ci sei già arrivato? Lo mordi il cuscino?» – Jimmy: «No» – Lui: ‘Lo farai, è una cosa liberal. Un giorno manifesti per la foresta pluviale, il giorno dopo finisci a ingoiare cazzi. Sbaglio?»).

 

L’ispirata generosità della penna dello screenwriter Scott Rosenberg (che poi non darà troppo seguito a questa piccola gemma, finendo a scarabocchiare le sceneggiature ben meno valorose di “Con Air” e “Fuori in 60 secondi”, prima di defluire nell’artigianato televisivo) è dimostrata anche da due altri fattori: a) quante braci di dialoghi roventi siano distribuite anche ai prestigiosi comprimari del film e non solo ai protagonisti (ola per Critical Bill-Treat  Williams quando urla, rivolto al poveraccio che si appresta a massacrare: «Io sono Godzilla, tu sei il Giappone!!»), e b) con quanta eleganza di sottintesi e malizie seduttive sia sbozzata la love-story incompiuta tra Dagney (Anwar) e l’Angelo, dalla quale fioriscono piccoli dialoghi veloci e mirabilmente in equilibrio tra il rischio e il desiderio, tra l’abbandono e la boutade, tra la verità (vi prego) sull’Amore e il gioco sferzante di due monelli scespiriani.

 

Cosa fare di Denver? Voglio dire: ricordate film americani di larga o mediocre circolazione che siano ambientati a Denver? Io no, e ho dovuto ricorrere alla mia solita ‘bibbia’ cinematografica www.imdb.com per cercarli. Ebbene, benché diversi (non tantissimi, comunque) siano stati girati anche nella capitale del Colorado o nelle sue vicinanze, non ce n’è in verità nemmeno uno degli ultimi vent’anni che abbia usato gli spazi urbani di Denver come viene fatto abitualmente con quelli di New York, Los Angeles, San Francisco, Miami o Chicago (ovvero le cinque locations cittadine più spesso protagoniste dei film hollywoodiani).

Il film di Fleder invece ‘vive’ a Denver come il suo sfortunato eroe e la percorre in una topografia notturna di luci e viali scintillanti da piccola Vegas, mentre la skyline di prismi di cemento e vetro resta sullo sfondo a muta testimonianza dell’indifferenza della finanza e dell’economia ufficiale dinanzi al tracollo imprenditoriale (ed esistenziale) del povero Angelo da strapazzo, costretto a venire a patti sempre più mefistofelici con i suoi incubi peggiori.

Nel vento cabriolet di un’estate assassina, Jimmy ‘The Angel’ Tosnia percorre avanti e indietro l’asfalto sudato di città ignobile, brillante, ricca e malavitosa: lo stillicidio cui si auto-condannano le sue improvvisate ‘iene’ è solo il prologo di una vicenda che saprà concludersi in una maniera al tempo stesso prevedibile e insperata, triste e dolce, tragicomica e amara.

 

Nessun dubbio nel promuovere questa piccola perla, ricca di veniali impurità ma sempre foscamente smagliante, a voti quasi pieni: il sette della pagella materializza le quattro ciao-stelle quasi automaticamente, inducendomi a consigliarvelo anche ora, a quasi tre lustri di distanza, per un recupero di archeo-videoteca (una stretta di mano all’esercente che ancora lo tenesse nei suoi scaffali di noleggio) o al peggio su qualche tv notturna o tematica. Fossi un programmatore Mediaset, lo metterei in palinsesto sui Bellissimi di Rete4 e credo nessuno avrebbe da ridire sulla collocazione.

Le gocce corrosive di troppe parole sboccate sprizzano roventi dal ghigno dei gangster, così come i petali frizzanti di frasi amorose si depositano soavemente sul pavimento chiaroscuro di amanti scacchisti, abili a danzare attorno all’ovvio senza mai abbracciarlo.

Tutto perfetto per la prossima notte insonne, in cui qualcuno di noi cercasse il ristoro ineffabile di quelle frasi perfette che senti solo al cinema, molti anni dopo il momento in cui ti sarebbero servite.

 

 

 

 

COSA FARE A DENVER QUANDO SEI MORTO (Things to Do in Denver When You’re Dead, Usa 1995, 115’). Regia: Gary Fleder. Soggetto e sceneggiatura: Scott Rosenberg. Fotografia: Elliot Davis. Montaggio: Richard Marks. Scenografia: Nelson Coates. Costumi: Abigail Murray. Musiche originali: Michael Convertino. Con Andy Garcia, Christopher Lloyd, William Forsythe, Bill Nunn, Treat Williams, Jack Warden, Steve Buscemi, Fairuza Balk, Gabrielle Anwar, Christopher Walken. (Voto: 7)

 

 

 

 

 

Cosa fare a Denver

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